1908. Olimpiadi di Londra. E' l'ultimo giorno delle competizioni ed è in corso la manifestazione più rappresentativa dell'intero evento: la maratona.
Un uomo, ormai stremato dalla fatica e disidratato per il gran caldo, sta per entrare nello stadio olimpico. Sbaglia strada, ma viene fatto indietreggiare e prontamente riportato sul percorso corretto.
Cade. Mancano solo 200 metri all'arrivo. Si rialza, ma con l'aiuto dei giudici. Cade di nuovo, e poi ancora per altre tre volte: è la medesima scena che si ripete. Ogni volta giù da solo, e poi su sorretto da qualcuno. Qualcuno che poi lo aiuta a tagliare il traguardo.
E' il cuore di un uomo, la tenacia di un individuo a portare a termine quell'impresa. E' anche la determinazione di quelli che gli sono intorno a fargli tagliare il traguardo.
Il tutto potrebbe concludersi con questo lieto fine. Ma così non è: il secondo classificato, lo statunitense Jonnhy Hayes, è in grado di portare a termine la gara senza aiuti esterni. Presenta dunque ricorso, ottenendo insieme la vittoria e la squalifica dell'italiano che sì lo aveva preceduto, ma con l'aiuto di altre persone.
Il lieto fine è, però, solo posticipato: la regina stessa lo premia con una coppa d'argento dorato e, da quel momento, la sua fama cresce in tutto il mondo. Paradossalmente, diventa un grande per aver perso.
Poco tempo dopo, misurandosi per altre due volte contro Hayes sulla medesima distanza, avrà ragione di lui in entrambe le occasioni.
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